Il Brigante dell’Etna – PARTE 9 – I casi a ‘gnur ‘Anna (le case della signora Anna) – (Bisognerebbe fare delle case a’ gnur Anna un monumento nazionale).
Si rimise in cammino e indi fece tappa e “casi a ‘gnur ‘Anna”. Erano queste case delle piccole stanze poste sul crinale del monte che divide la vista per Linguaglossa e la vista verso il bosco di Calatabiano, punto di passaggio obbligato per andare o venire dalle terre del bosco di Calatabiano. Oggi questo bosco non esiste più, e questo, a suo tempo fu dissodato per impiantare speciosi vigneti di nerello mascalese.
Queste case erano luogo di sosta obbligato per chi andava a piedi, in quanto chi arrivava lì vi giungeva dopo un’erta salita, sia che venisse da Linguaglossa che dal territorio di Calatabiano. V’erano dei sedili di pietra davanti alla casa e ognuno si sedeva per riposarsi. A ‘gnur ‘ Anna, un’anziana donna che viveva da tempo immemorabile in campagna, sul crinale, esposta a venti di tramontana, di libeccio, di ponente, di levante (li prendeva tutti, era per così dire esposta ai quattro venti), di tanto in tanto si affacciava davanti la porta per la “cummissazioni”, per chiacchierare un po’, e un bicchiere d’acqua fresca non la negava a nessuno.
Esercitava la parola del vangelo: “Dai da bere agli assetati” e diede da bere anche a Ggiddiu, che per altro ben conosceva in quanto loro, al bosco di Calatabiano, avevano “scatinatu” – dissodato – molte terre. Da lì Ggiddiu si sposta a Lungharinu, nelle terre di Callacciu – certo Barbagallo di Presa – dove gli lavorava la terra un certo Ferrara, amico suo, padre di Rosario Ferrara. Gli fece festa, Ferrara a Ggiddiu e Ggiddiu a Ferrara, ma il Ferrara non fece domande, del resto già sapeva bene la situazione com’era.
Mangiarono alla meglio – erano tempi di guerra per tutti – dentro casa, c’erano belle stanze ma lui volle dormire nella stalla, proprio dentro la mangiatoia con un po’ di paglia sotto le costole.
Non gli voleva dar problemi, così magari se l’avessero trovato poteva ben dire che era un vagabondo, e che a Ferrara non lo conosceva e Ferrara poteva dire che non conosceva lui; in questo modo lo tutelava.
Il sole era alto nel cielo e si specchiava nel mare di Taormina, sembrava si potesse toccare con un dito. Si vedeva, in lontananza, una nave, ma non si distingueva che cosa fosse di preciso.
Ggiddiu salutò Ferrara ringraziandolo e partì. Passò da Moraulì e attraversando la fiumara che passa da Pasteria, passò oltre il castello di Calatabiano, un posto troppo in vista e glabro, per cui poteva essere individuato facilmente.
Superato l’ostacolo si buttò a Marzacchina e proprio in quella contrada chiese ad un capraio una tazza di latte, dolce e profumato; lì, nascosto dalle fronde dei limoneti e degli aranceti, non correva pericolo.
Voleva dare dei soldi al capraio, ma questi li rifiutò; gli baciò le mani e attraversò l’Alcantara, che scorre lì da presso, che aveva poca acqua. Nel punto poi di Marzacchina, essendo il letto del fiume abbastanza ampio, le acque, nei momenti di calma, sono basse. Si diresse verso Castelmola, arrancando per le salite. Conosceva un certo Torrisi, a cui molti anni prima aveva portato qualche carretto di mandorle.
“Brancasiu” – Pancrazio – lo chiamò piano piano. Brancasiu gli offrì un mezzo litro di latte di mandorla, fresco e dolce – che nettare, che ambrosia, di questo neanche gli Dei greci ne avevano bevuto e Ggiddiu si ristorò; si sentì un altro tanto.
Per quella notte dormì lì, lo alloggiò in uno stanzino scavato dentro una roccia, in un punto più remoto della casa; si sentiva un mafioso di Gangi, di Sperlinga, lì che dentro una casa ne ricavavano un’altra ancora.
Non faceva né caldo né freddo; temperatura moderata e stabile. Partì al mattino alla volta di Savoca, dove voleva far tappa nel convento dei Cappuccini, e così fece: strada facendo bevve alla fonte del Re, nei pressi della Chiesa dei santi Pietro e Paolo d’Agrò, in quel di Casalvecchio. Chiese ospitalità al convento e gli fu data, ma lì il desinare era povero, doveva adattarsi, ma questo non gli doleva. Ad un certo punto, nel primo pomeriggio, (si era un po’ appisolato), bussarono violentemente al portone del convento. Prendendo tempo gli misero in fretta e furia un saio e lo fecero scendere, alzando una botola, da una ripida scala, nella cripta, assieme ai notabili imbalsamati di Savoca e ai vecchi prelati di un tempo che fu; ma Ggiddiu non si perse d’animo, male che andava avrebbe venduto cara la pelle, perché una pistola sotto la tonaca se la tenne, ma non ce ne fu bisogno. Era un trio di tedeschi che cercavano qualcuno, pensando che si fosse rifugiato nel convento; fecero un giro nella chiesa, in sagrestia e nelle celle, ma non trovarono nessuno; nella cripta non guardarono, certamente il luogo non li allettava e oltretutto doveva far loro molta impressione, anche in verità del fatto che cambiar stato per loro poteva essere questione di un attimo.
Ggiddiu, per mettersi ancora più al sicuro, aveva sollevato un’altra botola, nella cripta – l’ossario – e si era calato lì dentro richiudendosi la botola sulla testa.
Ggiddiu non aveva paura dei morti, ma dei vivi. I frati, vedendo che tardava, scesero nella cripta per andarlo a chiamare, e controllarono tutti i notabili imbalsamati, pensando che Ggiddiu si fosse messo in qualche nicchia per confondersi con loro. Capirono poi che Ggiddiu si era calato nell’ossario, e lo chiamarono: «Amicu, amicu, potete uscire», non conoscendone il nome, che né loro avevano chiesto e né lui aveva dato, ma l’amico non usciva. Ci volle un pezzo per capirsi ed infine Ggiddiu uscì, perché pensava che forse non erano i monaci a chiamarlo, perciò si guardava bene dall’uscire dalla tana. Ggiddiu passò lì tutto il pomeriggio, la sera e la notte. Dopo una magra cena da monaci Cappuccini, zucchine bollite e un po’ di pane bianco e un uovo sodo – Ggiddiu andò a dormire. La mattina presto si cambiò d’abito, lasciò il saio, si fece la croce e partì alla volta di Antillo.