Il Brigante dell’Etna – PARTE 7 e 8 – E Cchiappareddi – Portella di Femmina morta
E Cchiappareddi
Proseguendo il suo cammino, si diresse “all’aria di Cchiappareddi” – l’aia dei Cchiappareddi.
Qui trovò vecchi e bambini che “pisavano” il frumento – facevano la pisatura del frumento – (oggi si fa solo a Raddusa, in provincia di Catania, come evento culturale, sponsorizzato dalla Provincia Regionale di Catania).
Un asino trascinava delle pietre legate con delle corde e girava continuamente sull’aia, tirato da una vecchia per “u capizzuni”
– la cavezza- , inseguito da bambini in festa, che, beati loro riuscivano a giocare in quei momenti drammatici della guerra, ma a volte i bambini ci riescono. (I bambini di Bagdad volavano in aria, come angeli, sotto il fuoco delle bombe, mentre giocavano al pallone). Mai come in quell’anno c’era stato tanto ritardo per “pisari” il frumento.
Più in là, la brezza della “marinedda”, la brezza di mare che proveniva dallo Ionio, dal mare di Taormina; le vecchie “spagghiaunu”, separavano la pula dal grano, con gesti arcani, solenni, gravi, sacrali; il grano, il pane, nella cultura contadina, è sacro, s’identifica con Dio, è grazia di Dio e non se ne deve perdere neanche un chicco.
Ogni tanto la “marinedda” si fermava e bisognava aspettare. Recita un antico proverbio siciliano: “Si spagghia quannu c’è ventu”, ossia che bisogna approfittare dell’occasione per spagliare, per togliere la paglia. Così in ogni vicenda della vita, perché passato il vento, non si può “spagghiari” più.
Poi ogni famiglia faceva il suo monticello di grano e lo firmava, apponeva una sigla, una croce, un cerchio, un quadrato o qualcos’altro, e poi andavano a dormire.
In tal modo, se nella nottata qualcuno avesse trafugato del grano era facile accorgersene. Io ho partecipato all’unica pisatura del frumento della mia vita, da ragazzino, nel cortile Cavour, eseguita da di Don Franciscu Gullo.
Portella di Femmina morta
Seguitando ancora la sua strada, si diresse verso Portella di Femmina Morta, dal nome sinistro e pure luogo sinistro, perché fu proprio in quei luoghi – ove c’è un cippo a ricordarli – che parecchi anni più tardi, sarebbero morti quattro lavoratori della forestale, impegnati a spegnere un incendio. Vi morì anche il caposquadra per voler salvare quegli arbusti altamente incendiari.
Dicevano i “lijammari” – i tagliatori del lijammi -, la ddisa, l’ampelodesmo – che il “lijammi” è come la benzina, brucia in modo sbalorditivo. Dicevano che il monte “Minimà” – Miramare – bruciò tutto in un nonnulla, in un fiat, in tre minuti il fuoco lo divorò tutto.
Lì, in quei dirupi, dove non c’era nulla da salvare, perché incolto, il fuoco ha fatto effetto camino e sotto la spinta della “marinedda” e del sole torrido, non c’è stato scampo per quei poveri cristiani.
Da lì, Ggiddiu, scese più in basso, dove c’erano i boschi di roverella e dove sapeva che c’era certo Mariano Currenti, inteso Ruettu – Roveto – che preparava il carbone, ma che non accendeva i “fussuni” – la carbonaia – per non farsi scoprire, sperando che prima o poi i bombardamenti sarebbero cessati e i militari se ne sarebbero andati.
Gli fece gran festa a Ggiddiu, perché era del suo quartiere, il quartiere Don Diego detto pure “arreri i carcari”, dietro le fornaci di Don Paolino Ponzio. Gli fece mangiare del pane fresco di forno, che cucinavano nei forni all’aperto, ma di notte, e quando passavano gli aerei mettevano il coperchio nel forno per non scorgersi le fiamme.
Quel giorno era giorno di festa, si mangiava da re. Avevano catturato un porcospino, cucinandolo al forno, con aggiunta di “niputedda”, nepitella calaminta, dal forte odore aromatico. Don Mariano Currenti, carbonaio decano, tagliò con la sua autorità un pezzo di porcospino cotto, e lo porse a Ggiddiu; quale prelibatezza, quale dolcezza, era più dolce del maiale, e malgrado fosse agosto non dava nausea, perché la fame era nera.
Recita un proverbio siciliano: “Megghiu niuru pani ca niura fami”, – meglio pane nero (di segala) che fame nera.
Ad un certo punto, di notte, passarono dei tedeschi a piedi, che battevano in ritirata e chiesero pane e vettovaglie varie; fu loro dato e se ne andarono svelti svelti.
Quando se ne furono andati Ggiddiu non c’era, non si vedeva, ma si sentì un tonfo, un botto; si era buttato da sopra un albero e tutti sobbalzarono di paura; alla vista dei tedeschi si era nascosto lestamente tra le fronde, silenzioso come un gatto selvatico, uomo della notte, avvezzo a tutti gli espedienti della vita. Come i tedeschi se ne furono andati, ritornarono tutti nei pagliai, e Ggiddiu dormì sino nella tarda mattinata. Il sole era alto nel cielo azzurro, le stoppie indoravano ai raggi del sole. Da lì si scorgeva il monte Minimà – Miramare -, il monte di Santu Stasi – Sant’Anastasio – i Tre Monti, Taormina, Castelmola e Motta Camastra dalle alte rupi. Un paesaggio aspro, selvaggio, dove tirare avanti la vita era ogni giorno sempre più faticoso.
Le vecchie abbarbicate nei dirupi, viste da lontano sembravano delle nere capre, perché terre di capre erano quelle. Ma i giovani non c’erano a lavorare le campagne e bisognava buscarsi il pane. Ancora non c’era la pensione anche se Mussolini l’aveva introdotta rendendo obbligatori i contributi (giravano le milizie nelle campagne a controllare). Dicevano le vecchie quando io ero ragazzino: «Binidittu Musulinu!» riferendosi alla pensione, perché non dovevano stare a merito dei figli, non dovevano né aspettare né chiedere. Ma “a robba ca a fa na sfà” – la roba chi
la fa non la disfa – così recita un antico proverbio siciliano (si dice pure che ognuno deve lasciare, alla sua morte, più di quanto abbia ricevuto) e quelle vecchie non volevano far perdere la terra, non volevano far deperire quella terra che avevano acquistato a prezzo di enormi sacrifici; la terra era la vita, la sopravvivenza, l’affrancarsi dalla fame, il non dover chiedere, il non doversi levare la coppola di fronte al “signorino”, al proprietario terriero. Perché qui ai proprietari, anche se sposati, si dava del “signorino” e così anche alle signore si dava della “signorina” e “sabbenedica” – Vossia mi benedica – bisognava dire e chi non lo faceva veniva considerato irrispettoso e maleducato e nessun proprietario gli dava lavoro; veniva escluso a priori.
A Savoca, paesino del messinese, esisteva “u banchittu di galantomini”, dove all’imbrunire si sedevano i proprietari e i nobili del paese e i villani savocesi, che la sera tornavano dal lavoro, dovevano salutare secondo un preciso rituale e chi non eseguiva bene il saluto veniva multato (a volte anche pretestuosamente). Roba da Medioevo!