Arte, poesia e solidarietà sull’Etna: asta di Al-Cantàra per l’AIL e la ricerca contro la leucemia
Il Brigante dell’Etna – PARTE 11 – Motta Camastra
Arrivato dopo tanta fatica, (dovuta anche allo stato d’animo) nei boschi di Motta Camastra, si sedette sotto un albero di noci e si riempì la pancia alla meno peggio.
Le noci si sa, sono altamente caloriche e lo saziarono. Un bel po’ se li mise nello zaino perché aveva ancora tanta strada da fare. Sotto un albero d’ulivo raccolse “i mmanicati” – olive mature – dolci e saporite, ricostituenti; sono quelle che restano per terra e maturano ben bene.
Trovandosi nei pressi del fondaco di Motta, sulla strada che costeggia l’Alcantara, si fece dare un pezzo di pane dal fondacaio – pagandolo a caro prezzo, che il fondacaio non era né pastore né contadino – e guadò l’Alcantara, perché dall’altra parte si sentiva più sicuro.
Scese dal viottolo che c’era prima che alle Gole facessero l’ascensore e strada facendo riposò sotto “u Rulu Pitruni” – la Quercia Petrone – una quercia centenaria che dava un senso di protezione nascondendolo alla vista degli altri, con i suoi rami che arrivavano quasi fino a terra.
Dei maiali grufolavano contenti cibandosi di ghiande; addolcivano inconsapevolmente la loro carne, che nell’inverno imminente – era già ottobre – avrebbe sfamato tanta gente. Si riposò un po’, ma stette poco. Voleva addentrarsi verso l’interno, verso Mitogio, ma era stanco, aveva bisogno di un pasto caldo, di una stalla, di una mangiatoia dove riposarsi. Proseguendo il suo cammino sentì un vocìo, c’erano delle masserie, delle case di campagna ed anche stalle, rifugi per animali.
Era quasi sul far della sera e lì imbruniva prima degli altri luoghi, in quanto esposto a nord e alle spalle vi erano e vi sono i monti “Santu Stasi”, “Minimà”, Tre monti, l’Alto Milio, per cui il sole lì tramontava molto presto, nel primo pomeriggio.
Ggiddiu era titubante, là c’erano famiglie, non era il pagliaio del pastore o la “mannura” o la stalla del contadino, ma il freddo era pungente, l’umidità penetrava nelle ossa e così si prese di coraggio.
Sentiva, in fondo alle balze, ai dirupi scoscesi, il vocìo degli uomini, che, finito il lavoro, si davano la voce, da casolare in casolare, per riunirsi a bere un bicchiere di vino, per fare una partita a carte, per parlare della buona e della malannata, del raccolto avvenuto e di quello perso, di quello andato a male, rovinato e della guerra che non finiva mai, snervante, infinita, affama tante. Dopo quest’afflato umano, gli uomini sarebbero ritornati ognuno alle proprie case a mangiare, a dormire, a riposare, al meritato riposo dopo una giornata di stenti, di lavoro e di pericoli.
Egli andava indietro nel tempo, con la memoria, quando anche lui era un giovane come loro, un onesto lavoratore. Anch’egli, la sera, con gli amici, soleva intrattenersi, mentre le donne di casa preparavano il desinare per gli uomini che avevano lavorato tutta la giornata.
Alla fine, non volendo passare una notte all’addiaccio, chiamò gli uomini e chiese un pezzo di pane.
Gli venne incontro Don Giovanni Z., il calzolaio, con suo fratello Turi, che lì avevano le vacche, i vitelli e tenevano campagna e pascoli. E che aveva visto il sole? Fu una visione folgorante, abbacinante. Si abbracciarono.
«Ggiddiu, e tu ccà» – Egidio, tu qui? «Cu ti porta?» – chi ti porta – «E cu mi porta? A vita mi porta» – E chi mi porta? La vita mi porta – rispose Ggiddiu.
Egli si rianimò, si sentì un altro tanto; gli occhi gli si inumidirono, gli venne un nodo alla gola. Aveva avuto una fortuna sfacciata quella sera, una buona sorte; non poteva capitargli di meglio. Gli tornò il cuor contento, gli sembrava Pasqua, Natale, Capodanno, Carnevale, gli si aprì il cuore. Che fortuna! Lo fecero entrare nella loro dimora e si sedette con loro a quel desco che gli divenne subitaneamente familiare. Ma Ggiddiu notò un po’ di tristezza in quella casa, in quanto c’era un bambino che stava male perché aveva i vermi. Egli aveva appreso da suo padre Gaetano, che sempre andava dai “mavari” – maghi – per via che ci credeva, come quasi tutti i contadini e non solo quelli, si offerse di dire le “orazioni” per guarire il bambino. Se lo mise sulle gambe e sfregando la mano sulla pancia nuda del bambino, recitava:
“Quannu Ggesuzzu di l’Innia – India – vinìa,
purtava tantu bbeni,
e so matruzza ne sispiti parìa; testi di pisci ci desi à mangiari,
d’unni veni stu mali aviss’a à passari. Lu venniri e santu, lu sabutu e santu,
la duminica di Pasqua lu vermu ‘nterra casca, primma la testa e poi la cuda,
libbirati sta criatura”.
– Quando Gesù veniva dall’India (dall’oriente) portava tanto bene,
e sua madre una silfide sembrava. Teste di pesce gli diede da mangiare,
da dove viene questo male deve passare. Il venerdì santo, il sabato santo,
la domenica di Pasqua il verme cade per terra, prima la testa, poi la coda,
liberate questa creatura –
Tutto ciò lo recitò per tre volte e finalmente il bambino smise di piangere, mostrandosi contento e giocando con gli altri bambini. C’era un altro bambino che stava male, ma di questo dissero che gli avevano fatto “l’ucchiatura”, il malocchio. Così Ggiddiu fece prendere un piatto in cui dentro c’era dell’acqua, e postolo sulla testa un po’ irrequieta del bambino, che non stava fermo, col dito mignolo della mano destra, versava, immergendolo in un bicchiere dove c’era dell’olio, delle gocce dello stesso, che, sull’acqua si spargevano formando sinistre figure, a mò di serpi. «C’è cosa fatta», disse Ggiddiu, testeggiando. Allora incominciò a recitare le parole, facendosi il segno della croce:
«A nommu di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu. Intra bon’occhiu e fora malocchiu.
Iò cogghiu ucchiatura di la testa an fina e peti fin’e cimmi di capiddi.
Intra bon’occhio e fora malocchio. Fora ugghi, fora spinguli, fora chiova,
fora ucchiatura, fora ‘nnuggiatura, fora scarpisatura, fora vardatura, fora iacqua ‘nciminata».
In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, dentro buon’occhio e fuori malocchio.
Io raccolgo malocchio dalla testa fino ai piedi, fin nelle cime dei capelli.
Dentro buon’occhio e fuori malocchio, fuori aghi, fuori spille, fuori chiodi,
fuori malocchio, fuori annoccatura, fuori pestatura – disprezzo –
fuori sguardo cattivo, fuori acqua preparata con parole magiche. –
Il tutto lo ripetè tre volte e alla fine l’olio uscì chiaro “na stidda”, ossia splendente come una stella.
Poi, non pago di ciò, volle benedire la casa, caso mai vi fossero forze avverse, così come vedeva fare a suo padre. Con tono severo e con gli occhi un po’ spalancati, recitava, usando le tre dita, pollice indice e medio, come fosse il Papa o un prete esorcista:
«Bbinidiciu li quattro cantuneri, chista è la cruci di nostru Signuri, quattro pani e quattro pisci,
lu bbeni e la saluti mi vi crisci»
– Benedico i quattro angoli, questa è la croce di nostro Signore,
quattro pani e quattro pesci,
il bene e la salute che vi cresca –
Tutto questo recitato per tre volte.
A questo punto don Giovanni Z. contento per la guarigione del bambino e anche per la benedizione della casa, andò di là a prendere la fisarmonica, di cui era maestro, e quella sera si fece festa. Valzer, mazurche, tarantelle siciliane, polke, e quant’altro, furono le musiche di quella sera; e vino buono, del migliore, di quello che si conserva nelle bottiglie per le occasioni importanti. Ggiddiu aveva portato la gioia in quella casa. I bambini giocavano e ballavano spensierati, inconsapevoli della guerra che invece incupiva l’anima dei grandi. Anche Ggiddiu si mise a suonare la chitarra e anche il mandolino, che loro tenevano gelosamente in un armadio, avvolti in un sacco di tela verde per ciascuno di essi. Ggiddiu aveva imparato a suonare questi strumenti, quando, giovanotto, andava a bottega nel salone da barba di Bastiano Spada, alla Matrice. Era un tempo in cui aveva avuto gli occhi malati di tracoma, e gli oculisti di Catania, dov’era stato ricoverato per lungo periodo, gli avevano detto di evitare la polvere, e che dunque doveva cambiar mestiere. Così purtroppo per lui poi non avvenne per alterne vicende; forse sarebbe stata la sua fortuna. Poi Don Giovanni Z., Don Turi Z. e Ggiddiu, che aveva una bella voce, si misero a cantare canzoni di carrettieri, a squarciagola, alla faccia della guerra.
Si ballò molto quella sera e i bambini si divertirono tanto. Ci fu un revival di canzoni dialettali:
“Mi partu di Palermu e vaiu a Patti, e vaiu a cogghiri li divini frutti,
ci fu na picciuttedda ca non n’happi,
ca di la pena lu cori mi ruppi…”
Parto da Palermo e vado a Patti, vado a raccogliere i divini frutti, ci fu un ragazza che non ne ebbe e dalla pena mi ruppe il cuore.
E tante altre canzoni siciliane. Fu una serata incantevole, di grande pathos, di forte sentimento. Sentivano, gli uomini, ed anche le donne, il bisogno di qualche ora di spensieratezza, per dimenticare la guerra, le paure, i bombardamenti, i rischi quotidiani che qualche tedesco, per rabbia o per capriccio, ti lasci secco, così, per niente. Un po’ come quando muore un parente; dopo un pò di tempo l’organismo sente il bisogno di reagire e cerca di vivere, di allietarsi, di darsi un po’, come si suol dire, una botta di vita.
Dopo essersi divertite un bel po’, le donne, felici, prepararono la tavola. La cena era buona: zuppa di cavoli ristretti con aglio e pomodoro, arricchita con pezzettini di pecorino vecchio; inoltre abbondante formaggio e uova fritte e buon pane di casa, fatto con farina di grano duro, il grano siciliano; dati i momenti della guerra, loro, si poteva ben dire, che mangiavano bene; se la passavano bene.
Ma non contento di ciò, Don Giovanni Z., per onorare l’amico caro, andò nella stalla, prese un grosso coniglio, lo uccise, e lo fece cucinare alle donne. I fegatini fritti furono offerti all’ospite. Mentre altri desideravano tutto, questi, producendo il cibo in proprio, stavano bene, non desideravano nulla; si potevano definire, a ragione, contadini comodi. Avevano tutto: latte, formaggi, grano – e quindi farina per il pane e i maccheroni – uova, polli, tacchini, il cappone per Natale, conigli, capre, pecore e d’inverno pure il maiale, con tutta la ricchezza che questi porta con sé: frattaglie, costate, frittuli, ziringhuli – ciccioli – salsiccia, salame, soppressata. Allevavano anche i vitelli, quelli per la macellazione clandestina. Gli prepararono quindi un letto, anche se Ggiddiu fece un velato cenno di rifiuto: non voleva comprometterli. Raccontò così la sua vicenda, ma loro sapevano già tutto.
Loro si confidarono pure, dicendo che anch’essi si erano dati da fare, con miglior fortuna però, ma solo per la famiglia e qualche amico. Soprattutto macellavano clandestinamente per la gente della contrada, per il fondacaio del fondaco della Motta e per gente di Gravà e Francavilla di Sicilia. Però ora che stavano meglio non volevano più farlo, perché il contrabbando, dicevano, era diventato molto pericoloso.
Ggiddiu dormì come non aveva mai dormito, si alzò tardi, la mattina, a sole alto. Voleva andarsene ma loro insistettero di restare almeno per il pranzo. Le donne di casa, la sera innanzi, per l’occasione, avevano preparato i maccheroni e lì usavano “u juncu” – il giunco – e non la “fusella” dell’ombrello (l’asta dell’ombrello). “U juncu” che raccoglievano negli acquitrini sottostanti, asciugando il maccherone, fa si che uscendo sfili meglio, senza ammassarsi, (come a volte succede con la “fusella” dell’ombrello), dando un sapore di maggior finezza.
Mi torna in mente un detto siciliano che ci riporta al sentire mafioso: “Caliti juncu ca passa la gghina”; – abbassati giunco che passa la piena – essendo questi molto flessibile, quando cala la piena d’acqua, si piega, ma non si spezza, pronto a rialzarsi, a raddrizzarsi, ad alzare la testa, subito appena passa la piena.
In fondo è un atto di furbizia, oltre che di falsa sottomissione. E più che le loro insistenze, lo convinsero i maccheroni, che era da molto tempo che non ne mangiava. Ne mangiò due buoni piatti, “ca curma” – abbondanti – con un buon sugo di pollo – ne avevano fatto la spesa due teneri galletti – il tutto grattugiato con abbondante pecorino stagionato col sale e col pepe nero, di quello che quando lo tagli, piange, (gli scola l’olio).
Un siciliano per l’ospite si svena, si presta, lo considera sacro, lo tiene in grande considerazione; non parliamone se poi è forestiero; in quel caso lo venera. Nel frattempo le donne di casa cercavano di intrattenere i bambini, di blandirli come meglio potevano:
“E na ota, cc’era, cu cc’era? Cc’era na vecchia ca ciculattera ogni tantu ittava un puntu, ssettiti ccà, ca ti lu cuntu”.
Una volta c’era, chi c’era?
C’era una vecchia con la cioccolatiera, ogni tanto cuciva,
siediti qua che te lo racconto.
E i bambini a sognare questa vecchia con la cioccolatiera che doveva passare da un momento all’altro, e che in effetti non veniva mai, era solo nella loro fantasia.
E ancora: Luna lunedda,
fammi na cudduredda, fammilla bedda ranni,
c’ià dammu a san Giuvanni, san Giuvanni non la voli…
Luna, lunetta, fammi un panino,
fammelo bello grande,
glielo diamo a San Giovanni, San Giovanni non lo vuole…
A Ggiddiu gli venne un groppo alla gola, voleva giocare con loro, come un bambino, voleva ritornare bambino, a quell’infanzia spensierata, dove non pensi mai che qualcuno ti possa sparare alle spalle, ti possa fare secco. Ritornava la sua mente a tempi immemori, che di tanto in tanto, come otre che galleggia, riemergono dal sottosuolo della memoria.
Ora, però, Ggiddiu, facendoci caso, non ricordava che né suo padre e né sua madre, gli avessero mai dato un bacio, e questo a volte, lo metteva soprappensiero, gli faceva venire dei dubbi sul fatto che gli volessero bene.
Di contro, Ggiddiu, sapeva bene che in Sicilia i bambini si baciano quando dormono, se no crescono scoglionati, perché, dicevano i vecchi, che i bambini troppo coccolati, “nnurmusi”, non crescono mai, non diventano mai uomini.
Però non di solo pane vive l’uomo, se uomo è, ma di Dio, di sentimenti, di ricordi, di affetto umano. Arida è quella vita che basa l’esistenza sul calcolo, sulla moneta, sull’avarizia, peraltro vizio capitale.
Ggiddiu aveva la pena nel cuore, voleva uscirsene da quella mala vita, ma non trovava soluzione.
Nel frattempo Ggiddiu aiutava Don Giovanni Z. a governare le bestie, allogate nelle stalle sottostanti la casa.
Non se ne voleva andare, la sentiva “iaira” – agra – Il posto glie era piaciuto, il benestare pure, e poi fra di loro; di quanti erano, si confondeva, nessuno lo avrebbe notato.
C’erano le vigne che con i suoi colori cangianti gli davano un senso di pace, di serenità. Era già ora di “scamorzare” – tagliare i tralci ma senza potarli – e di incominciare a fare i “fussuna” – fosse – per arricchire le viti di humus. Don Giovanni porse a Ggiddiu un grappolo di cataratto, che è l’ultima uva e si conserva meglio delle altre per l’inverno, che avevano lasciato appositamente sulla vite. Ggiddiu la mangiò con grande piacere, gli ricordava la sua uva, l’uva della sua terra, delle sue proprietà. Le arance calabresi, tra le foglie, mostravano qualche verdello fuori tempo, e già le prime clementine erano dolci, e i limoni e i cedri; e i loti gli sembrava il paradiso terrestre. E acqua abbondante, e sorgive (ho visitato quei luoghi negli anni a venire e sono luoghi veramente incantevoli, paradisiaci).
E intanto gli pareva brutto andarsene e gli pareva brutto restare; e con quale scusa poi? Alla fine, che poteva fare? Decise di partire, ma lo fece con la pena al cuore.
Andando avanti lungo l’Alcantara, nella zona detta “I scifazzi” per via dei grandi “scifi”, che sta per grandi recipienti, grandi conche, dove l’acqua dell’Alcantara sgorga da sotto le rocce ed è acqua che viene dall’Etna, dallo scioglimento della neve, ed è gelida come tutta l’acqua del fiume Alcantara, proprio in questo punto c’era un ragazzo che arrostiva trote, pescate nello stesso fiume. Un tempo gli arabi tenevano i coccodrilli, ed ogni tanto li pescavano e se ne cibavano. Era questo ragazzo un certo Raciti, castiglionese, che poi sarebbe diventato un abile artigiano, ebanista, intarsiatore, ed avrebbe fatto onore a Sidney, in Australia, al suo paese di Castiglione di Sicilia. Ggiddiu era sorpreso che nel fiume vivessero i pesci, non sapeva che c’erano anche le anguille. Il ragazzo gli regalò una trota cotta, condita con salmoriglio; gliela incartò calda calda in un foglio di carta oleata e Ggiddiu la mise nello zaino. Gli voleva dare soldi, ma Raciti non ne volle. Strada facendo si fermò alla Cuba bizantina di Santa Domenica, sotto Castiglione di Sicilia, dove fu ospitato per qualche giorno. Essa era occupata da un pastore, un certo Pennisi di Catena. I Pennisi di Linguaglossa provenivano dalla borgata Catena, che in parte apparteneva al Comune di Castiglione di Sicilia ed in parte al Comune di Linguaglossa. Quando calò la sciara del 1923, i Pennisi perdettero i beni che lì avevano, e se ne scesero a Linguaglossa. Mi raccontava don Filippo Pennisi, padre del maresciallo Pennisi, che quando scassò la montagna nel 1923, il 17 giugno, all’una di notte –
“Lu 17 giugnu a menzannotti, Mungibeddu iapriu li cataratti,
di tutti li parti si sinteunu li bbotti”…
Egli si trovava alla Germanera, con le pecore, ed era ragazzino. Si salvarono perché si rifugiarono in un pagliaio dove le pietre, esplose dalla montagna, essendo il pagliaio di forma conica, rotolavano senza fare danno; fu una fortuna a potersi salvare la vita in questo modo, invece la casetta di canali si sfondò tutta. Le pecore scapparono, e per andare a recuperarle dovettero tribolare molto. Scesero poi dalla parte di Linguaglossa, perché nel frattempo la lava era arrivata velocemente, in un niente, presso il torrente Palmellato, nella contrada omonima della Palmellata.
Ora, Ggiddiu, non sapeva più dove andare e si ritirò a Pietramarina, ma ci stette poco. Era inquieto, cercava una soluzione al suo problema. Sapeva che nei boschi di Cesarò c’erano i soldati dell’Evis, l’esercito dei volontari indipendentisti siciliani e a loro si voleva unire. Pensò: “come va, va; o carrozza o vicaria”, o in carrozza o in galera, riferendosi al carcere della Vicaria di Palermo.
Recita un antico proverbio siciliano: “Lu sceccu zzoppu si godi la via,
li bbeddi facci su a là Vicaria”
– L’asino zoppo si gode la strada,
i giovanotti belli sono alla Vicaria –
intendendo che chi è un po’ così e si accontenta, non assaggia galera, mentre chi è gagliardo, “rivugghiusu” –li beddi facci- spesse volte assaggia la galera, ed era proprio il caso di Ggiddiu. Ma indietro Ggiddiu non poteva tornare e quando si prende la cattiva strada è così, sono strade che non spuntano, che si fermano, sono vicoli ciechi, come quelle stradine preparate apposta per i turchi che assalivano i paesi e le città costiere, dove non spuntando in alcun luogo, venivano tratti in un tranello, e i nostri li massacravano, (quando ciò riusciva loro), attaccandoli alle spalle.
Lui aveva un ottimo referente presso l’E.V.I.S., ed era l’avvocato Attilio Castrogiovanni, linguaglossese e separatista convinto, che spese tutte le sue energie per questa causa; con lui era in una botte di ferro.
Così una mattina, di buon’ora decise di recarsi a Cesarò. Fa una prima tappa a Murazzo Rotto, un po’ sopra Randazzo, dove c’erano “mannuri” –ovili – di pecore. Si rifocilla presso i pastori, si riposa un po’ e poi fa un’altra tappa al mulino di Ponte Bolo, nei pressi del Simeto, oggi luogo di ristoranti.
Lì si ferma un po’, perché questa era zona pericolosa, di passaggio, e riparte per Cesarò, dove appena arrivato, va a pernottare in un fondaco. Sta lì tutta la notte e la mattina si addentra nei boschi di Cesarò. Non vede nessuno, non scorge nulla, ma ad un tratto viene assaltato, da dietro le spalle –ma dov’erano nascosti questi uomini?- (Ggiddiu, per quanto accorto, non li aveva visti). «Alto là, chi va là. Fermo, mani in alto, o siete un uomo morto!». «Sono amico di Castrogiovanni!», disse subito Ggiddiu, ma non per questo loro se la calarono – ci credettero – «Venite con noi».
Con i fucili puntati lo sottoposero ad un’interrogatorio molto circostanziato chiedendo dell’avvocato Attilio Castrogiovanni e di Linguaglossa, per vedere se dicesse il vero. Ggiddiu disse loro: «Voglio combattere per la Sicilia libera ed indipendente, voglio unirmi a voi». Proprio in quei giorni doveva venire l’avvocato Attilio Castrogiovanni e i combattenti dell’E.V.I.S. tennero Ggiddiu sotto sorveglianza, in attesa che venisse l’avvocato.
Difatti, da lì a pochi giorni, all’imbrunire, era quai buio, Attilio Castrogiovanni si fece vivo. Gli sottoposero Ggiddiu al suo cospetto; si abbracciarono. I soldati dell’E.V.I.S. rimasero stupiti alla vista di tanta confidenza. «E’ un uomo valoroso che servirà alla nostra causa» disse Castrogiovanni, «da oggi in poi Ggiddiu è un mio protetto, trattatelo bene per come merita, come se fosse la mia stessa persona».
Lo tennero così in grande considerazione, ma successe lo steso episodio che con gli Stimoli; dopo alcuni colpi di forte tosse emise sangue e rivelò così a loro la sua malattia, che purtroppo non poteva nascondere; lo fregava sempre la tosse. Questo episodio, all’insaputa di Ggiddiu, lo riferirono a Castrogiovanni, che nulla a questo punto poteva fare; era pericoloso perché poteva infettare gli altri.
Così Ggiddiu subì la stessa sorte che ebbe con gli Stimoli, e cheto cheto dovette andarsene. Aveva la morte nel cuore, per lui non c’era più speranza, non si poteva redimere più. Vedeva già la sua sorte, il suo destino; il fato si avverava.
Quello che dicevano i vecchi allora era vero, che tutto è scritto nel libro mastro, che nessuno può cambiare il corso della sua vita.
Non capiva invece che tutto quello che gli accadeva era frutto di se stesso, dei suoi errori.