Il Brigante dell’Etna – PARTE 12- Ritorno a Pietramarina
Non gli restava altro che tornarsene a Pietramarina, ma di che cosa sarebbe vissuto? Gli amici ti possono sostenere una volta, due, tre volte, ma non per tutta la vita. Che fare?
Passavano i carrettieri da Montedolce per andare a Randazzo, a Cesarò a Troina ed anche passavano per Moio Alcantara. Li conosceva tutti.
Per Moio Alcantara passava “u Muitanu” che aveva sposato una di Linguaglossa. Faceva viaggi col carretto, commerciando un po’ di tutto. Passava anche un certo L. detto così per via del labbro leporino, che somigliava a quello della lepre e che faceva anch’egli macellazione clandestina. Ggiddiu, per non recar loro danno non li chiamava per nome, ma attribuiva loro in giorno della settimana: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì ecc…
Dava loro degli incarichi, si faceva portare da casa cibo e quant’altro, anche la biancheria pulita. Ma questo non sfuggì all’occhio attento di don Peppino u Carzareri, che non rassegnato per lo smacco subito, (si era fatto scappare un ospite) a Ggiddiu non se l’era dimenticato. Faceva bene il suo mestiere, e vedendo che i familiari di Ggiddiu, una volta l’uno, una volta l’altro, uscivano da casa, specie a tarda ora, si era mangiato la castagna e costruì la mappa dei carrettieri che partivano per quei luoghi; del resto li conosceva uno per uno. Non gli fu difficile tendergli un’imboscata, e in una mattinata senza luna, mentre Ggiddiu prendeva dei viveri e la “mutata” – vestiti puliti – da un carrettiere amico suo; i carabinieri lo accerchiarono assieme al carrettiere, due carabinieri se lo misero in mezzo, serrandolo strettamente per le braccia, ma lui riuscì a strattonarli e fuggì per le sciare di “Muntiduci” – Montedolce – I carabinieri, cercando di colpirlo, spararono all’impazzata nel buio della notte, il mulo s’imbizzarrì e partì follemente con il carretto e tutto il suo carico. Il carrettiere fu arrestato ma non parlò.
Ggiddiu sentì un caldo liquido che gli colava nella gamba sinistra; l’avevano colpito in malo modo e perdeva sangue.
Si trascinò carponi, rovinandosi le mani fra le rugose sciàre – lave- e si condusse con gran dolore nella vicina grotta di Montedolce. Strappò la camicia e si bendò la coscia, per fermare il sangue che colava copioso. Passò così la notte ed era spossato per il sangue versato.
Nella mattinata alcuni contadini, passando lì da presso lo videro che era mal combinato e per pietà cristiana lo caricarono su una mula e lo portarono in una locanda di Moio Alcantara, dove c’era una locandiera che si guadagnava da vivere come meglio poteva, un po’ come la Mirandolina di Goldoni.
Lì Ggiddiu venne curato – chiamarono di nascosto un vecchio medico del luogo, che gli estrasse la pallottola e fu ben pagato, sia per il suo eccellente operato, che per il silenzio che doveva mantenere.
La riabilitazione fu lunga, ma per fortuna nessuno lo venne a cercare in quella locanda, forse perché nessuno sapeva o forse per rispetto della locandiera che, forse, ogni tanto, alle persone giuste, qualche favore lo faceva.
Ma Ggiddiu lì non si sentiva sicuro, per cui ogni tanto si allontanava, dormiva dove meglio poteva; aveva paura di qualche sortita, non è che gli poteva andare sempre bene, pensava lui, per cui come il cane che ogni tanto si allontana dal padrone, faceva frequenti assenze. Spesso vagava per le campagne di Gravà, ricche di masserie e di ogni ben di Dio.
Sebbene fosse armato fino ai denti non incuteva paura; la gente era abituata a vedere uomini armati, e poi si faceva gli affari suoi, così non correva pericolo. E poi c’erano tanti che vagavano nelle campagne in quel periodo, non si capiva nulla e alla gente non importava nulla; una sola cosa importava loro: campare, vivere alla meglio per superare la guerra e il dopoguerra che non si prospettava tanto bello.
Mi raccontava Don Egidio Valastro (e non solo lui) che nel 1945 un chilo di pane valeva un giorno di zappare, e al mercato nero quattro giorni di zappare; come se fosse ora oltre duecento euro; cose strabilianti! E per un litro d’olio, ci voleva una settimana di lavoro, ma nessuno lo comprava; i contadini usavano “a saimmi” –la sugna- Ggiddiu portava il mitra, che anche se celato dallo zaino e dalla bisaccia era sempre evidente.
Inoltre la cartucciera alla cintola non si poteva nascondere del tutto perché la lunga giacca che lui portava era sempre aperta. Un qualcosa che pesava, nella giacca, si evidenziava ed era la pistola, caso mai il mitra, all’occorrenza, si fosse inceppato. Inoltre un lungo coltello da caccia, lungo quasi quanto una baionetta, era sempre visibile, a significare che, se il mitra per caso non si vedeva, c’era sempre qualcosa pronto alla bisogna, per dare il benservito qualora qualcuno avesse voluto attaccarlo.
Così Ggiddiu girava alla ricerca di cibo fra le masserie, e in una di queste, vide, ad un certo punto, aprire una finestra in una stalla sottostante la strada, e dietro essa un volto chiaro di donna dai capelli biondi tendenti al rossiccio.
Subito dopo la donna si affacciò alla porta della stalla: era una contadina formosa, sui trent’anni, dai grossi polpacci dal lieve vello color miele (regalo lasciatoci dagli Svevi in Sicilia), dalle mani e dai polsi grossi come quelle di un uomo; era alta, bella, slanciata. Aveva una falce nella mano destra, segno che stava dando del fieno alle bestie, ma, ad evidenziare, che nel caso ce ne fosse stato bisogno, anche lei era armata, e, una falce, a volte, può essere più pericolosa di un coltello. Potevano essere le tre del pomeriggio e nella campagna assolata si sentiva cinguettare stancamente solo qualche passero; in queste ore i contadini fanno la pennichella.
Il contrabbandiere era come un cane randagio. Le disse, se, oltre alle provviste avesse un pasto caldo. Erano rimaste delle fave con la pasta del pranzo di mezzodì e lei glieli scaldò. Mangiò avidamente e bevve due bicchieri di vino.
Le disse pure se le favoriva dell’acqua per lavarsi. Gliela portò. Si levò la giacca, unta di grasso e la camicia, si lavò la faccia e il collo. Gli occhi gli eran diventati lucidi. Lei lo capì e voleva allontanarsi, ma, donna era anch’ella e veniva attirata da quell’uomo, che bello non era, ma le infondeva il fascino dell’avventuriero. La donna viene attratta spesso da chi delinque per il coraggio o altro. Lui le disse, che, se lei era disposta, desiderava fare l’amore. Lei acconsentì.
La sdraiò su di una fascina e in pochi minuti, degli spasmi, dei rantoli e tutto era finito.
Si rimise a posto ed anche lei, perché quell’attimo di piacere poteva essere interrotto da un momento all’altro, tant’è vero che da lì a poco venne a trovarla una vecchia zia che abitava in un casotto distante circa un chilometro da lì.
La vecchia zia la vide trasandata, arrossita, sudata; qualcosa capì, ma non le chiese niente.
La guardò però con aria di rimprovero e fu un silenzioso dialogo, ma assordante per loro, in cui tutto si dissero e tutto capirono, ma, nessuno disse parola. Un siciliano per comunicare non ha bisogno di parlare!
Ggiddiu capisce che per lui la vita sarà sempre più difficile, e in questo modo non può più andare avanti.
Si vuole attrezzare di una motocicletta per essere più veloce negli spostamenti (i carabinieri allora andavano a cavallo), e si rivolge ad un certo T.d.F. di Castiglione di Sicilia, il quale si era dato da fare durante la guerra, anche lui, e poi aveva fatto incetta di tutto quello che aveva potuto prendere nella piana di Cerro, tanta roba che i tedeschi avevano lasciato, incalzati dagli Alleati.
T.d.F., uomo di fegato, tarchiato, dalla forza proverbiale, tanto il soprannome, buttava a terra con due strattonate qualsiasi uomo; sapeva districarsi fra la legge e i delinquenti, uomo furbo ma leale.
Così vendette a Ggiddiu per una buona somma di denaro una motocicletta, e gl’insegnò pure come guidarla, ma Ggiddiu era un diavolo, un Cifaro, captava tutto e subito, ed imparò in un nonnulla.
Recita un antico proverbio siciliano: “Ccatta un diavulu e ccattulu cent’unzi e non ‘ccattari un minchiuni sanari”, ossia, “Compra un diavolo e compralo cent’onze e non comprare un minchione sanari” essendo il “sanari” una piccola moneta, e Ggiddiu, come anzidetto era un diavolo.
Si rifornì anche di bombe a mano da questo T.d.F., perché se avesse avuto un incontro con i carabinieri, avrebbe venduto cara la pelle. Sapeva che questa volta gli avrebbero sparato a vista, senza dire: “Fermo o sparo”, perché non si volevano far beffare un’altra volta, e poi si sa che quando una persona diventa pericolosa meglio sparargli prima addosso e dopo sparare il colpo in aria, così come vuole la regola, anche perché i carabinieri volevano tutelarsi la propria pelle e avevano anche famiglia.
Così con tutto questo armamentario, Ggiddiu si ritirò nuovamente a Pietramarina. Da lì ogni tanto si spostava e nelle notti senza luna s’appostava nei pressi della casa di Don Manlio Stagnitti, linguaglossese, che era situata appena finiva la salita di Montedolce.
Qui, i carrettieri, finita la salita, facevano riposare un po’ il mulo, e qui, Ggiddiu, “nfaccialatu” –mascherato- li rapinava. Sì, Ggiddiu era diventato un ladro di passo, un brigante ; aveva fatto il salto di qualità, se così si può dire, ma in effetti aveva degenerato la sua vita. Mai lui poteva profetizzare che sarebbe diventato così, che avrebbe rapinato dei carrettieri come lui, ma ormai era alla frutta, non aveva altre possibilità, se non quella di costituirsi, ma Ggiddiu non era uomo di questo sentire, non si sarebbe mai piegato alla giustizia, non si sarebbe mai messo nelle mani giuste della legge, così come doveva fare.
Attuata la rapina, una volta riparava a Pietramarina, una volta nella grotta del Bue di Solicchiata, una volta nella tenuta dei Majorana a Passopisciaro, di cui conosceva il massaro, insomma, vagava da un posto all’altro per non farsi leggere le carte, per non farsi acchiappare.
Ogni tanto, stanco di queste scorrerie, stanco di vagare da un posto all’altro, stanco di tribolare, andava a rifugiarsi dalla locandiera di Moio Alcantara, che gli preparava un pasto caldo, un letto caldo e non solo quello.
Aveva trovato come si suol dire “u rizzettu”, un luogo di riposo, ma sempre lì non poteva stare; ma ci tornava spesso e volentieri. Pensò anche di farle tenere i soldi delle scorrerie, tanto che fa, la locandiera glieli poteva negare? La pelle le avrebbe fatto, e poi la locandiera non era male; in un solo caso si faceva brutta, quando le guardavano la figlia; in quel caso usciva “l’agghi”, gli agli, le unghie, e inviperiva lo sguardo. Così per il brigante dell’Etna non c’erano più né Natali né Capodanni, né Pasque né Pasquette, ma giorni tutti uguali e, anzi, in quei giorni di festa, l’amarezza aumentava, il senso di solitudine s’ingigantiva. Sentiva un peso nel cuore, una tristezza infinita.
In quei giorni di festa, il brigante dell’Etna se ne stava tutto il giorno assopito, non faceva nulla e se era inverno se ne stava davanti al fuoco quasi inebetito.Non andava neanche dalla locandiera, era come offendere la santità della giornata, ma pensava ai suoi familiari, a sua madre, a suo padre, alla sorella, ma soprattutto alla sorella Rosa, che le voleva un bene dell’anima.
Poi, come passavano le feste, riprendeva vitalità, ritornava a combattere la sua lotta quotidiana, la lotta di un uomo braccato, di un randagio che correva sempre per la campagna e per i monti.